Intervista Antonio Nuzzo/Satyananda

Swami Satyānanda maestro dalle naturali doti di umanità e di straordinaria intelligenza, di un livello superiore di coscienza e di permanente vigilanza, facoltà che ha saputo ben orientare per essere un degno successore del grande Maestro Swami Śivānanda ha lasciato migliaia di adepti dello yoga in Italia, che ringraziano ancora con tutto il cuore questo grande e generoso maestro che ha lasciato infinite testimonianze di questa meravigliosa disciplina. Antonio Nuzzo incontra Swāmi Satyānanda Sarasvatī negli anni 70, fin dal primo incontro rimane colpito dalla dedizione e dall’energia inesauribile che quest’uomo dedica in ogni istante della sua vita alla ricerca, all’insegnamento e alla trasmissione dello yoga, senza smettere mai al tempo stesso di coltivare la pratica e il suo percorso personale. Antonio in quell’epoca trentenne rimane affascinato da questo maestro e dalla sua interiorità, centrata, concentrata sull’operatività e dedita all’impegno prefissato, schivo, lontano da qualsiasi evento della vita sociale, non incline ai piaceri mondani. Profondamente devoto al suo Maestro Swāmi Śivānanda, sempre in perfetta armonia con i suoi intenti.

- Antonio, l’insegnamento di Swami Satyananda ha costituito un passaggio fondamentale nella trasmissione, dal sapere nascosto alla generosa diffusione della conoscenza agli altri, ci puoi raccontare qualcosa in proposito?
- AN: «Il tempo degli yogin che vivevano nelle caverne in eremitaggio era passato. L’accesso al sapere accumulato per migliaia di anni dai grandi Ṛṣi del passato non doveva essere più rifiutato a nessuno. È per questo che Satyananda si è dedicato con la sua opera di diffusione e di insegnamento attraverso tutti i mezzi disponibili in modo massiccio e capillare in tutti i continenti contribuendo alla formazione di allievi, insegnanti e Swāmi. Swāmi Satyānanda ha saputo dare un grande raggio d’azione all’insegnamento, attraverso riviste e libri di grande valore didattico e pedagogico, rivelando conoscenze e tecniche ritenute segrete dalla tradizione. È come se, sotto l’impulso di Swami Śivānanda, avesse deciso di aprire un grande scrigno di gioielli preziosi, gelosamente custoditi per millenni per distribuirli all’umanità al fine di arricchire l’indole umana e trasformare l’intera comunità di coloro che sono sensibili al loro valore e predisposti alla ricerca. La sua più spiccata capacità era quella di saper spiegare i testi antichi spesso esoterici in un linguaggio semplice e essenziale comprensibile per gli uomini di nostri tempi. »

- Quando hai incontrato per la prima volta Swami Satyananda?
- AN: «Il mio primo incontro con Swāmiji ebbe luogo a Zinal (Svizzera), dove, la prima settimana di settembre di ogni anno, si svolgeva un raduno che vedeva la partecipazione di circa 1.000 persone provenienti da tutti i paesi europei. Organizzato sin dal 1973 dall’ “Unione Europea delle Federazioni Nazionali di Yoga”, l’incontro aveva come animatore e, all’epoca, segretario generale, il signor Gérard Blitz. Fu nel 1975, in occasione di una conferenza tenuta nell’auditorium che ho visto entrare per la prima volta Swami Satyānanda insieme ad altri Swami da lui iniziati. Era venuto a introdurre un tema allora completamente sconosciuto e che risvegliava in tutti un grande interesse, il tantra. »

- Che cosa ti ha colpito del suo insegnamento?
- AN: «Ho subito compreso le sue grandi qualità culturali, esperienziali e spirituali. Quello che avevo di fronte era un innovatore che aveva saputo sottrarre dall’oblio, rinnovare e adattare all’uomo dei nostri tempi il grande e prezioso insegnamento tantrico, presentandolo in una forma più consona alla nostra mentalità e alle nostre condizioni di vita. Se in questi ultimi decenni lo yoga si è sviluppato in Occidente in modo così ampio, in gran parte il merito di ciò va ascritto a grandi Maestri come Swāmi Śivānanda di Rishikesh, e i suoi diretti discepoli incaricati a diffondere l’insegnamento dello yoga in tutti i continenti con tenacia e dedizione. Di questi ultimi, Swāmi Satyānanda, l’unico esperto in tantra, si è distinto per la sua determinazione che lo ha portato a non venire mai meno al suo immenso compito.»

- Ci sono state altre occasioni d’incontro?
- AN: «Nel luglio 1978, l’Unione Europea Yoga organizzò un soggiorno in India proprio presso l’āśram di Munger dedicato allo studio, all’approfondimento e all’esperienza del Kriya Yoga. All’iniziativa aderirono 50 insegnanti europei di yoga. Non potevo mancare all’appuntamento. Il gruppo partì da Parigi alla volta di Delhi, da qui si diresse a Patna ed infine, dopo 5 ore di viaggio in auto, raggiunse Munger. Ci sembrò di essere arrivati in uno dei luoghi più sperduti del continente indiano. L’āśram ci accolse con grande ospitalità e iniziammo il lungo apprendimento di quelle tecniche millenarie. Verso sera, durante il satsang, Swāmi Satyānanda dava udienza al gruppo. Lo scopo di noi tutti era quello di vivere a stretto contatto con un Guru autentico, con un ricercatore, un testimone di profonda spiritualità, impregnato della millenaria tradizione, dotato di una mente chiara, capace di spiegare cose complesse con una semplicità e una metodicità sconcertanti che lasciavano trasparire una sconfinata sapienza. Riusciva a ricavare dalla più antica tradizione insegnamenti di fondamentale importanza per poi interpretarli alla luce delle più moderne scoperte effettuati nei più svariati campi della ricerca scientifica, come per esempio, la neurofisiologia, la biochimica, la psicologia etc.»

- Come si svolgeva la vita nell’ āśram?
- AN: «Durante quel soggiorno nel suo āśram eravamo impegnati in lunghe pratiche meditative della durata di tre ore. Inoltre, al mattino si praticava haṭha-yoga e poi yoga-nidrā e prānāyāma e, per concludere la giornata, si cantavano i kirtan.»

- C’è un’esperienza particolare che ricordi di quel periodo?
- AN: «Durante una delle sessioni di kriya yoga ebbi una esperienza straordinaria. Sentii il mio corpo dilatarsi fino a toccare i limiti della sala che ci conteneva, ebbi la sensazione che la sala fosse stretta, fui invaso dalla paura, ebbi un senso di affanno, ma rimasi immobile, dopodiché la mia coscienza si liberò dal corpo e incominciai a vedere tutto quello che succedeva alle mie spalle e anche nel cortile che si trovava al di fuori della sala. Chiesi un colloquio con Swāmi Satyānanda e lui, dimostrando di conoscere bene il fenomeno, mi disse con grande semplicità che erano esperienze psichiche normali alle quali non bisognava prestare ascolto. Dovevo lasciare andare/accadere le cose senza mai ricercarle. In quell’occasione Swamiji mi diede Il nome spirituale di Advaita che custodisco con affetto nel mio cuore come un sankalpa, una profonda aspirazione e una direzione di ricerca.»

- Tu sei stato il promotore della sua venuta in Italia, ci racconti come andò?
- AN: «Nel 1979, ero presidente della federazione italiana yoga e decisi di organizzare un convegno con la partecipazione di Swamiji, ma lui, avendo un calendario molto fitto mi propose di inviare al suo posto Swami Nirañjanānanda, assicurandomi, al contempo, la sua presenza al convegno dell’anno seguente, così nel settembre 1979 ricevemmo l’allora giovanissimo Swami Nirañjanānanda, che ci diede un’anteprima di quello che sarebbe stato l’incontro dell’anno successivo. Infatti nel maggio del 1980, Sri Swami Satyananda Saraswati arrivò all'aeroporto di Roma per spargere i semi dello yoga in Italia ed io ebbi il grande privilegio di accoglierlo all’aeroporto di Fiumicino per portarlo a Numana, sede del convegno. La partecipazione all’evento fu di gran lunga superiore alle nostre più rosee previsioni: ci aspettavamo non più di 300 persone e dovemmo rapidamente cercare ulteriori alloggi nelle vicinanze per accoglierne più del doppio. Il convegno ebbe una risonanza enorme in tutto il paese. Furono affrontate innumerevoli tematiche relative al tantra, allo yoga di Patañjali, al karma yoga. Come sempre, Swamiji si impegnò per tutto il giorno in conferenze, colloqui, incontri privati e satsang.»

- Ci puoi parlare di qualche tratto saliente della sua personalità?
- AN: «Mi ha colpito la sua generosità nell’insegnamento, sicuramente era convinto che accumulare sapere e esperienza fosse una forma di egoismo se trattenuto solo per un proprio profitto personale. Ricordo che mi diceva “Trasmettere la conoscenza agli altri è un dovere ….”. Era molto riservato, evitava di intrattenersi a parlare del più e del meno con amici e conoscenti e, durante il suo viaggio a Roma, mostrò una totale mancanza di interesse per le attrazioni turistiche. Il suo interesse era incentrato solo sulla ricerca yoga e sulla comunicazione di quanto vissuto sulla propria pelle. Egli ci ha lasciato in eredità un’enorme bagaglio di conoscenze e di pratiche e, con esso, un immane compito a cui dedicarci con costante determinazione, un compito che molto probabilmente non riusciremo a portare a termine in questa vita, ma che non ci stancheremo mai di perseguire.»